Cabaret racconta l’ascesa del Nazismo e ci fa riflettere sulle storie dimenticate
Come ogni anno, il 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria.
Quel giorno del 1945 l’esercito sovietico, alle ore 12, aprì per la prima volta i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, mostrando al mondo l’orrore e la follia perpetrata nei lager. L’Europa era rimasta indifferente a quanto avveniva in quei luoghi considerati “normali” campi di prigionia, più preoccupata dell’avvento del regime comunista che non dalle mire espansionistiche di Hitler.
Moltissime le manifestazioni in questa giornata, le rappresentazioni cinematografiche e teatrali, per non dimenticare.
Sempre più frequentemente, non si commemora lo sterminio degli ebrei solo il 27 gennaio, ma si tende a dedicare l’intera settimana al ricordo di quella che è stata la Shoah.
L’avvento del nazismo e delle leggi razziali non portarono nei campi di concetramento solo gli ebrei, ma tutti coloro che Hitler riteneva fossero inferiori, diversi, non puri come gli ariani.
L’elenco è lungo e dimenticato: dai Rom ai Sinti e tutti gli zingari. Poi i testimoni di Geova, i socialisti, comunisti, i pentecostali, i disabili, malati mentali e poi i mulatti.
Umiliazione e terribili abusi subirono gli omosessuali. Internati prima Fuhlsbutte, costretti a portare cucito sulla giacca il triangolo rosa, vennero sottoposti a terribili esperimenti. Morirono più di sette mila persone, quasi tutte di nazionalità tedesca.
Il musical Cabaret, tratto dal un romanzo di Christopher Isherwood con musiche di John Kander, scritto dal genio di Fred Ebb e libretto di Joe Masteroff, risale al 1966. Ha ispirato l’omonimo film del 1972 che consacrò Lisa Minelli al mondo intero. E’ ambientato nella Berlino del 1931, quando il nazismo iniziava a farsi prepotente.
Le vicende di Sally Bowles e di Cliff Bradshaw si sviluppano in questo contesto storico, dove il Kit Kat Klub rappresentava un locale “diverso”, un mondo a parte rispetto al clima politico che si respirava a Berlino e che si voleva dimenticare, non vedere.
Il destino del Maestro di Cerimonie del Kit Kat Klub, già nella versione di Londra del 1993 e poi in quella di Broadway del 1998 ci rimanda alle vittime dimenticate della Shoah. Una stella gialla cucita sul petto accanto ad una rosa.
Anche la versione italiana portata in scena dalla Compagnia della Rancia per la regia di Saverio Marconi nel 2015 ci ricorda questo momento storico dimenticato.
Ricordo la tensione che ho percepito, seduta in platea, sebbene conoscessi già la storia e avessi visto anche il film, di qualcosa di impercettibile e infimo che si infilava piano piano nelle vicende dei personaggi e arrivava anche al pubblico in sala. Un senso di angoscia che prima o poi sarebbe esploso se davvero, tutti, (anche noi spettatori), avessimo guardato fuori dal Kit Kat. Via i lustrini e la vita da Cabaret, fuori dal club esisteva un mondo terribile che non lasciava dubbi verso il baratro cui stava trascinando l’umanità.
Ricordare la Giornata della Memoria significa aver cura di non dimenticare, di continuare a cercare quelle storie non narrate, per ridare, con il racconto e la rappresentazione, la dignità che è stata loro tolta.
Ricordare la Giornata della Memoria significa riflettere sulla vita che scorre fuori dal Kit Kat Club, che era un posto bellissimo, ma là fuori c’era l’Inferno, quello che molti non vedevano.
Primo Levi ha scritto: “Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengono tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e di discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso”.
Oggi forse, ancora più di allora, non possiamo permetterci di abbassare lo sguardo, di andare oltre, di lasciare che il terribile accada perché, “tanto è lontano”, non ci riguarda.
Ricordare le storie dimenticate, quelle non raccontate, credo sia un compito di responsabilità anche delle arti e dello spettacolo, nel tentativo di costruire una società più umana e solidale.
Sarah Pellizzari Rabolini
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La citazione di Primo Levi è tratta da “Se questo è un uomo”, Einaudi, 1990.
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