“Cirano deve morire”: l’estetica rap “vuole solo provocare”?

Dal 22 novembre al 4 dicembre Cirano deve morire è tornato al Teatro Vascello riempendo il teatro di un pubblico giovanissimo e travolgendolo con la sua vis polemica. La riscrittura di Leonardo Manzan e Rocco Placidi della commedia Cyrano de Bergerac, mette al centro di uno spettacolo-concerto Rossana, l’amata di Cirano e vittima del suo inganno, rendendola narratrice di una storia che ha solo subito. Accanto a Rossana (Paola Giannini), il cuore dell’opera diventa proprio la finzione, che è l’unica cosa che sopravvive alla morte dei suoi amanti, Cirano (Alessandro Bay Rossi) e Cristiano (Giusto Cucchiarini).

Non è banale chiedersi come faccia una commedia del 1800 a tornare a riempire un teatro. Gli autori l’hanno rianimata con un’intuizione, inedita nel panorama italiano, trovando nuova forza espressiva e una rinnovata autenticità nel rap. I versi di Rostand si appoggiano al linguaggio di strada per recuperare sì la poeticità del testo originale, al quale nessuna traduzione italiana rende giustizia secondo il regista (lo stesso Manzan), ma anche per veicolare la carica polemica di quello sguardo eternamente sfidante, tipico di Cirano.

L’estetica rap va a braccetto con l’immagine che gli autori vogliono dare del protagonista.

Non è un caso che lo spettacolo inizi con un estenuante, lentissimo ed ironico duello a spada che cede presto il passo a un disegno luci da concerto pop, a un’estetica postmoderna e al ritmo del rap che irrompe cambiando immaginario e avvertendoci che stiamo per vedere un’altra storia.

Non è un caso che poco dopo il suo primo ingresso Cirano sfidi il pubblico ad una gara di versi che diventa una freestyle battle in piena regola, così che il rap diventa un pretesto per cogliere quell’egocentrismo giovanile, quell’orgoglio ribelle e irriverente di cui Cirano è un concentrato estremo.

Non è un caso neanche che uno dei brani con il ritornello più catchy definisca il protagonista come “troppo polemico, troppo polemico, poco ironico” e che “vuole solo provocare”.

Ma a che cosa si rivolge tutto questo provocare?

Alla società? In parte. In particolare però in questa versione la critica di Cirano va agli intellettuali e al teatro che cerca di rappresentare la società. Così il suo bersaglio diventano le mode, che portano il teatro politico a svuotarsi di senso, perché rincorre temi in trend e non un’esigenza reale; i meccanismi interni al teatro di prosa, che sforna attori dalle accademie civiche, per poi concedere loro la cittadinanza solo in teatri di provincia; e infine i premi più prestigiosi. Un artista che trova una collocazione in questo mondo è un “paraculo illustre”, ma lui no. “Cirano in questa farsa non ha parte”.

Eppure, paradosso vuole che proprio questo spettacolo abbia ricevuto la benedizione di uno dei contesti più istituzionali del panorama teatrale italiano, vincendo il bando della Biennale College Teatro – Registi Under 30 nell’edizione 2018/19. E quindi se, come nelle intenzioni del regista, Cirano deve morire come icona di nemico dell’ipocrisia, in quanto ipocrita e padre di un inganno lui stesso, forse Cirano deve morire anche come modello di provocazione per amore della provocazione, di sfida per gusto della sfida, di ribellione per pura tensione ribelle.

Se una generazione trova specchio in quelle parole, in quello scontento, in quella bruciante polemica sul teatro italiano, allora c’è la speranza che venga spinta dall’energia di questo spettacolo a non adattarsi al ruolo di “paracula illustre” ma a trovare nuove regole, nuove risposte e un nuovo senso al tempo che scegliamo – artisti e pubblico – di dedicare alle storie tra un sipario e l’altro.

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One thought on “%1$s”

  1. Purtroppo pessima piece. L’idea sarebbe stata ottima e promettente, ma la resa orribile. Testi di banale volgarità e rumorosità. Nulle provoca più di una delicata e raffinata creatività che qui sono totalmente assenti. In questo spettacolo si urlano parole abusate, volgari, si sbraita scomposti, si acceca il pubblico con le luci di scena puntate verso gli spettatori. In sintesi: voto bassissimo allo spettacolo e diffidenza nei confronti dei meccanismi con cui si assegnano i premi della biennale di Venezia. Delusione e biasimo

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