“Come un animale senza nome” è un’opera-concerto che mette al centro la parola. E non una parola qualunque, bensì quella politica e profondamente umana del Pasolini intellettuale. In particolare sono state le parole del “Poeta delle Ceneri”, poema autobiografico scritto nel ’66, a occupare il palco del Vascello dal 28 al 30 novembre.
A conferma che il fulcro dell’operazione sia la parola, la scena si presenta spoglia: il centro è vuoto, mentre il palco è abitato solo da suoni emessi, a destra, da un Lino Musella a leggìo, seduto su uno sgabello per tutta la durata dello spettacolo e, a sinistra, dal M° Luca Canciello che accompagna la lettura dell’attore con suoni e musica elettronica riprodotta dal vivo.
Pasolini in rap
C’è un solo momento in cui l’interazione tra gli elementi principali (suono e parola) si fa più stringente: l’attore comincia a giocare con la sillabazione, mentre dall’altra parte del palcoscenico Canciello risponde puntualmente, aumentando gradualmente il ritmo, fino a sovrapporre musica e parola, convertendo così la scrittura di Pasolini in un rap. I due elementi recuperano velocemente la propria autonomia, senza tornare mai a intrecciarsi, ma non si può non notare come l’incursione temporanea di un genere con una connotazione socio-culturale così forte sia inserita per strizzare l’occhio al lavoro dell’intellettuale di sinistra, alla sua poetica e alla sua attenzione alle persone ai margini della società.
Tuttavia, per cogliere questo, come altri lati del Pasolini nascosto tra i versi autobiografici, c’è bisogno che chi siede in platea abbia ben presente la vita, l’opera e la reputazione dell’autore. In caso contrario, purtroppo, l’irrompere di uno stile musicale che sembra estraneo al linguaggio utilizzato può apparire facilmente fuori contesto.
Il perchè del mezzo teatrale
La sezione più coinvolgente dello spettacolo giunge con la seconda metà del lavoro, quando a Musella lo stare seduto sembra finalmente cominciare a stare stretto, mentre attira su di sé, magneticamente, le attenzioni di un pubblico che si fa silenzioso e ascolta le parole sedotto dall’espressività del corpo dell’attore.
Proprio per questo, mentre lo spettacolo procedeva intercettando più l’attenzione delle nostre orecchie che quella dei nostri occhi, non ho potuto fare a meno di chiedermi perché è stata eletta la forma teatrale per uno spettacolo che vuole evidentemente valorizzare la pura parola. Perché non scegliere un altro mezzo espressivo? E scegliendo il teatro, perché limitarsi a sfruttare la dimensione del suono?
Nel percorso verso un teatro destrutturato che reinventa le convenzioni, ci stiamo forse dimenticando le potenzialità del dispositivo scenico? Non crediamo più nelle sue possibilità espressive? Domande legittime che aprono a risposte legittime, anche se diverse. Ma allora mi chiedo, perché incaponirsi sul tornare allo spazio teatrale?
Nei giorni che hanno separato la visione dello spettacolo dalla stesura di queste righe ci ho riflettuto e credo che questo “ritorno” abbia a che fare sicuramente con il magnetismo di un attore come Musella, ma che abbia anche molto a che fare con l’insostituibile dimensione collettiva che l’arte teatrale impone, dimensione che… sì, di certo era tanto cara anche a Pasolini.