La storia del Teatro Sociale di Crema, preziosa casa d’arte strappata anzitempo alla sua città
“Poi la strada la trovi da te, porta all’Isola che non c’è”
Cantava così -nel lontano 1980- l’intramontabile Edoardo Bennato, accompagnandosi con chitarra e armonica in uno dei suoi pezzi più celebri.
Ispirandosi all’omonimo locus amoenus ideato da J.M. Barrie, creatore di Peter Pan, “L’isola che non c’è” invita intere generazioni a cercare il proprio happy place in ciò che più le entusiasma.
Che sia in un posto fisico o dentro una persona, l’Isola che non c’è ha un unico denominatore: esiste per i pochi che vogliono cercarla.
Ci sarebbe da ringraziarlo, il buon Bennato; e imperativo sarebbe ringraziare le miriadi d’intraprendenti cercatori che il suo messaggio ha formato.
Perché è proprio grazie a questo spirito che la memoria di un’antica casa d’arte come quella che state per conoscere sopravvive ancora oggi.
Decaduto alla fine degli anni Trenta, del vecchio teatro sociale di Crema non rimane che un singolo monolito a ricordo di un’immane tragedia.
Infatti, se da un lato la distruzione del Sociale non causò la morte di nessuno, dall’altro andò a “uccidere” un simbolo della cultura locale.
Ciò che resta dell’ex Teatro Sociale, al civico 18 dell’odierna piazza Marconi, ci pone dinanzi all’immane potenza del ricordo e all’importanza di tenerlo vivo.
Perché oggi il Teatro Sociale di Crema è capace di esistere soltanto agli occhi di chi vuol conoscerne l’identità.
E se i versi di Edoardo Bennato valgono ancora a distanza di quarant’anni, la storia che state per leggere saprà aprirvi un mondo nuovo.
Perciò, seconda stella a destra: pronti a scoprire il teatro che non c’è?
Stando alle cronache storiche, la città di Crema non si dota di un vero e proprio teatro fino al XVIII secolo.
Prima di allora, le compagnie teatrali operanti in loco potevano contare soltanto sulle pubbliche piazze per allestire i vari spettacoli, non senza disagi.
La situazione era analoga a quella di tante altre città italiane del Rinascimento, in special modo i capoluoghi di provincia.
Infatti, il loro ambiente culturale era per antonomasia meno soggetto al mecenatismo rispetto a quello delle capitali ducali.
Per esibirsi in un luogo migliore, gli attori potevano solo confidare negli aristocratici e nell’apertura delle loro proprietà come “proto-teatri ad hoc”.
È il caso di Crema, dove in data 11 febbraio 1526 si registra la prima rappresentazione teatrale (una commedia) presso la villa del nobile Sermone Vimercati.
È plausibile si siano tenuti altri spettacoli prima di questa data, tuttavia, si trattava di pièces itineranti senza un vero filo conduttore.
Quel che è certo, è che l’opera mecenate del Vimercati sprona altre casate nobiliari a fare altrettanto.
E in men che non si dica, le dimore dei patrizi cremaschi non sono più sufficienti a soddisfare la crescente diffusione dei teatranti in città.
È in questo contesto che si verifica il primo tentativo di costituire un teatro stabile nella città di Crema.
Infatti, nel 1643, il podestà Alessandro Bollani concede l’utilizzo di una sala del Palazzo Pretorio al fine di ospitare la rappresentazione di un dramma.
Come lo Stanzone de’ Banchi, antenato del Teatro Rossi di Pisa, la sala cremasca si dota di scenografie, dipinte in questo caso dal pittore Gian Giacomo Inchiocchio detto il Barbelli.
Inoltre, nel 1681 il nuovo podestà Antonio Canal acquista due abitazioni contigue al Palazzo Pretorio e permette l’allargamento della sala con la costruzione di 38 palchetti su due ordini.
Ne nasce quindi un proto-teatro, la cui offerta di melodrammi risulta tra le più variegate nel territorio.
Tutto ciò si deve ai costanti incentivi dei governanti veneziani e alla loro già radicata sensibilità verso l’arte del palcoscenico.
Infatti, nel tardo Seicento, la Serenissima era già dotata di ben quattro teatri.
Ad ogni modo, lo “stanzone cremasco” riesce a perdurare poco più di un secolo, poiché nel 1716 le autorità ne decretano l’immediata chiusura per problemi di agibilità.
La causa è da ricercarsi nella preoccupazione destata da un incendio avvenuto nello stesso anno in un teatro di Milano, che aveva sollevato il problema della sicurezza nei proto-teatri.
Fortunatamente, Crema non deve aspettare molto per riavere la sua casa teatrale.
Dopo la chiusura dello stanzone di Palazzo Pretorio, il Consiglio Generale di Crema vota la costruzione di un nuovo teatro.
Tra i rettori della città, alla seduta del 12 luglio 1716, votano a favore in 38 e in 18 si dichiarano contrari.
A presentare la mozione è lo stesso podestà Camillo Trevisani su iniziativa della moglie Cornelia Benzoni, cremasca e appassionata d’arte drammatica.
Come ubicazione si sceglie un’area campestre della roggia Rino, grande quanto bastava per ospitare una struttura e bonificabile in tempi brevi.
Nello stesso mese del medesimo anno, il giorno 28, le autorità tengono una cerimonia pubblica per posare la prima pietra del futuro teatro.
Quattro anni dopo la nuova casa d’arte è finalmente ultimata.
Così, nel 1720, sorge il nucleo primordiale del Teatro Sociale di Crema, subito rinnovato nei suoi paramenti col restauro del 1732.
Di tale edificio non rimane alcuna traccia, giacché sarà inglobato negli ulteriori lavori d’ampliamento decisi per il teatro nel 1782 e nel 1784.
Quale unica concessionaria del teatro, infatti, la Società dei Palchettisti approva due delibere al fine di ammodernare la struttura in precario stato di conservazione.
Era necessario trasformare il modesto teatro dell’exclave lombarda della Serenissima in un virtuoso teatro all’italiana, capace di distinguersi tra i suoi pari.
Per farlo, la Società dei Palchettisti affida un progetto quotato 138mila lire venete a uno degli architetti più in voga del tempo: Giuseppe Piermarini.
già autore del meraviglioso Teatro alla Scala di Milano, il Piermarini lavora al teatro cremasco per due anni e completa la sua opera nel 1786.
Nello stesso anno, in data 29 settembre, il nuovo Teatro Sociale di Crema apre le sue porte al pubblico con una cerimonia inaugurale in grande stile.
Presenti, oltre ai rettori della città, anche i delegati della Repubblica di Venezia.
Come spettacolo inaugurale si rappresenta il Demofoonte, opera seria di Pietro Metastasio che riscuote un ottimo successo di pubblico e critica.
La casa d’arte realizzata da Giuseppe Piermarini resterà pressoché immutata sia all’esterno sia all’interno, salvo specifici interventi di adeguamento strutturale.
Provenendo dall’allora Piazza del Teatro tra le vie S. Rocco e S. Caterina, appositamente selciata per agevolarne l’accesso alle carrozze, il Sociale di Crema si presentava con una classica ed elegante facciata a capanna.
Quest’ultima constava di una cornice marcapiano che la divideva in due sezioni: quella superiore, scandita da quattro finestroni rettangolari, e quella inferiore, comprendente i tre portali d’accesso.
Di questi, il portone centrale era racchiuso in un sobrio porticato con terrazza balaustrata, realizzato in bugnato liscio in tinta unita con la facciata.
Tale infrastruttura serviva ad accogliere le carrozze e fornire riparo agli occupanti qualora questi ultimi avessero dovuto scendere nel mezzo di un acquazzone.
Assieme al timpano in chiusura di facciata e al suo frontone scarno, il portico è un palese rimando del Piermarini al Teatro alla Scala di Milano, sua opera magna.
Internamente, il Teatro Sociale di Crema presentava una tipica sala a ferro di cavallo scandita da quattro ordini di palchi più platea, con una capienza totale compresa tra gli 800 e gli 850 posti.
Questa scansione subisce una leggera modifica nel 1838, con la sostituzione del quarto ordine di palchi con un loggione.
Per realizzare i paramenti decorativi, nel 1784 il Piermarini aveva avviato una prolifica collaborazione col pittore Pietro Gonzaga, scenografo di fama europea e già architetto dello splendido teatro di palazzo Arkhangelskoye di San Pietroburgo, ad oggi ancora esistente.
Tuttavia, il lavoro del Gonzaga lo soppianta quello di Gaetano Vaccani, che si rifà allo stile del predecessore affrescando una gloria di personaggi mitologici classici assieme a volti noti dell’Opera italiana.
Sull’archivolto della bocca di scena, Vaccani dipinge l’erma di Euripide, mentre sui parapetti del primo ordine di palchi realizza le effigi di Pietro Metastasio, Vittorio Alfieri e Carlo Goldoni.
Proseguendo sulle balaustre superiori, Vaccani dedica il secondo ordine alla cultura classica rappresentando elementi come Minerva, la regina Didone e le allegorie di Tragedia, Verità e Concordia.
Al terzo ordine di palchi, Vaccani rappresenta emblemi dedicati alla musica e al quarto, poi divenuto loggione, dipinge Tersicore che istruisce i putti alla danza.
A rendere accogliente l’atmosfera del Teatro Sociale di Crema c’era un imponente lampadario in vetro di Murano con lampade a gas, mentre il riscaldamento era garantito attraverso stufe a legna.
Gli attori che si esibivano sul palcoscenico potevano contare, tra le svariate scenografie, di ben quattro scenari dipinti dal celebre scenografo Alessandro Sanquirico, già pittore al Duomo di Milano e co-architetto dell’Anfiteatro meneghino del 1805.
Il Teatro Sociale di Crema va incontro all’ultimo imponente restauro nel biennio 1929-1930.
Tale intervento lo vuole fortemente la Società dei Palchettisti, per adeguare la struttura alle mutate esigenze spaziali.
A rimaneggiare la casa d’arte del Piermarini è l’ingegner Giovan Battista Donati de’ Conti, che ordina la realizzazione di una torretta sul tetto del palcoscenico per posizionarci degli argani meccanici.
Lo scopo era rendere più agevole alle maestranze lo spostamento delle scenografie durante i cambi, andando così a gestire meglio lo spazio nelle quinte.
Sulla facciata, l’ingegner Donati de’ Conti fa ampliare il portico settecentesco e lo rende una struttura a sé stante.
Il nuovo portico ingloba al suo interno i due portali d’accesso laterali e sfrutta i nuovi interni per disporre biglietteria, guardaroba, servizi igienici e foyer.
Ne consegue anche la nascita di un vestibolo al primo piano tra il secondo e il terzo ordine di palchi, presumibilmente adibito a spazio bar durante le serate di gala.
Gli interni, invece, solo soltanto sfiorati dal Donati de’ Conti: qui l’ingegnere si limita a cambiare la tappezzeria in velluto rosso delle pareti e a sostituire il lampadario a gas con un omologo più moderno a lampade elettriche.
Dopo due anni di lavori costati più di 927mila lire, il Teatro Sociale di Crema ha un volto rinnovato e maestoso, capace di competere coi grandi teatri del fu Regno d’Italia.
Pertanto, si organizza una cerimonia d’inaugurazione in data 13 febbraio 1930, alla presenza delle più importanti autorità locali e allietata dalla rappresentazione della Turandot di Giacomo Puccini.
Per il Teatro Sociale di Crema si prospettava un futuro di glorie e successi, eppure, inspiegabilmente, una notte di gennaio tutto precipita.
È il 1937 e nella serata tra il 24 e il 25 dello stesso mese, secondo il resoconto del quotidiano “La Provincia di Cremona e Crema”, il Sociale ha chiuso i battenti da qualche ora.
Nessuno è più presente in sala, fino a poco tempo prima gremita di un pubblico entusiasta per il successo de I balconi sul Canalazzo di Giacinto Gallina, commedia brillante portata sul palco cremasco dalla Compagnia Veneta di Gino Cavalieri.
Non è ancora l’una e trenta quando i residenti del circondario e alcuni passanti danno l’allarme per una coltre di fumo che fuoriesce dal teatro.
Bastano poche decine di minuti perché l’incubo diventi realtà: il Teatro Sociale di Crema sta andando a fuoco.
Quella che sembrava una miccia isolata diventa ben presto un furioso incendio, la cui furia divora la struttura dal retropalco sino al portico della facciata.
La caserma dei Vigili del Fuoco di Crema non riesce a domare da sola le fiamme, perciò, accorrono sul posto unità di pompieri da Lodi e Cremona.
Mentre le Guardie di Pubblica Sicurezza evacuano l’intero quartiere, il rogo diventa così potente da far colare a picco il tetto del teatro e, in rapida successione, l’intera facciata col suo portico.
Ci vogliono oltre nove ore di lavoro ininterrotto prima che i pompieri possano domare l’incendio, arrivando a estinguere le fiamme soltanto alle 10 del mattino successivo.
È un bollettino di guerra, la scena che si presenta ai cremaschi: del teatro del Piermarini non resta che un cumulo di detriti fumanti.
Pur se alcune porzioni dell’edificio sono uscite miracolosamente illese -come l’archivio e parte dei camerini- il quantitativo dei danni è incalcolabile.
Per stabilire cause e dinamica dell’incendio, si apre subito un’inchiesta che pone in essere la pista di un rogo doloso, forse appiccato per vendetta.
AI primi del Novecento, infatti, IL COMUNE AVEVA LIMITATO L’AUTONOMIA DELLA SOCIETà DEI PALCHETTISTI IN MODO DA CONDIVIDERE LA GESTIONE DEL TEATRO.
Pertanto, non era così assurdo pensare che un ex palchettista volesse farsi giustizia da solo, preferendo la distruzione alla più complessa battaglia legale.
Nonostante ciò, le indagini non accertano alcuna responsabilità individuale e l’incendio è bollato come accidentale.
A scatenarlo sarebbe stato un cortocircuito all’impianto elettrico, mentre le fiamme avrebbero iniziato a propagarsi dalle strutture in legno.
Poche settimane dopo l’incendio, in data 14 febbraio 1937, i Palchettisti anticipano al Comune la somma per il risarcimento che avrebbero poi erogato le assicurazioni.
Si trattava di un prestito, nella speranza di varare un progetto di ricostruzione del teatro e parteciparvi attivamente.
L’allora podestà Antonio Premoli sembra ben disposto, ma la sua giunta approva invece il progetto dell’architetto Carmelo Fadini, che prevede il risanamento del centro storico con la rimozione dei ruderi rimasti.
Pertanto, nel 1938, le autorità di Crema danno il via libera alla demolizione dei muri perimetrali sopravvissuti al rogo.
Se ne risparmia solo una misera porzione poi riadattata a casa civile, un tempo appartenente al retro del teatro e visibile ancora oggi.
Dopo secoli di onorata e imperterrita attività, il Teatro Sociale di Crema cessa per sempre di esistere nel giro di un solo anno.
Nel 1939 l’amministrazione comunale di Crema mette al vaglio una proposta di riedificazione dell’ormai decaduto Teatro Sociale, con un nuovo volto e una diversa ubicazione.
A firmare il progetto è l’ingegner Luigi Giglioli, che ipotizza la demolizione di alcune case civili tra piazza Duomo e piazza Trento (l’odierna piazza Istria e Dalmazia) per fare posto a un edificio in puro stile razionalista.
Essendo perfettamente in linea coi dettami architettonici del regime fascista, il Giglioli si augurava di avere un accesso facilitato ai finanziamenti statali.
Tra il 1941 e il 1942 il progetto è già approvato, tuttavia, la morte prematura del podestà Premoli ferma tutto l’iter burocratico.
Quando la seconda guerra mondiale prende il sopravvento, si rimanda qualsiasi decisione al termine del conflitto.
Nessuna proposta, però, sarà mantenuta e il nuovo Teatro Sociale non vedrà mai la luce del sole.
Cestinato il progetto dell’ingegner Giglioli, la città di Crema resta orfana del suo teatro per oltre sessant’anni, privando i cremaschi di un mondo culturale sorto a fatica sulle ceneri delle antiche commedie di strada.
Un’attesa, questa, che arriva quasi a cancellare la già debole presenza di teatranti locali e che trova la sua fine soltanto nel 1999.
Quell’anno, infatti, si ultima il recupero dell’antica chiesa di San Domenico nell’omonima piazza, realizzata nel Quattrocento e sconsacrata dal 1798.
Grazie a uno stanziamento di fondi come mai era capitato nella storia di Crema, la chiesa di San Domenico scampa all’abbandono secolare e si trasforma nel nuovo teatro cittadino.
Ai lavori, terminati proprio nel 1999, partecipa Regione Lombardia con 1miliardo e 200mila lire e l’azienda petrolifera Agip con un altro miliardo in investimento.
Con una cerimonia ufficiale alla presenza delle massime cariche regionali, la sera del 27 novembre dello stesso anno rinasce ufficialmente il Teatro Sociale di Crema.
Con la rappresentazione dell’Eliogabalo di Francesco Cavalli, i cremaschi tornano nuovamente a respirare l’atmosfera del proprio teatro locale.
È una struttura diversa, trasformata nel nome (Teatro San Domenico, ndr) e nell’immagine, ma la bellezza è sempre la stessa.
La stessa che, nonostante l’incendio devastante, quella notte di gennaio del 1937 non è mai morta per davvero.
Vede solo una casupola sfitta nel centro di Crema, l’occhio che oggi guarda i resti dell’ex Teatro Sociale.
La gloria che l’ha contraddistinto nel tempo e i fasti che l’hanno reso celebre restano vivi soltanto in qualche vecchia fotografia ingiallita.
Solo cenere dissolta nell’aria, invece, l’imponenza della struttura che fu.
Quell’unica casupola, su cui campeggia una targa commemorativa marmorea, testimonia l’esistenza di un teatro che è esistito e ancora esiste, ma non c’è.
E se il ricordo di qualche anziano non basta più a far sopravvivere la memoria, spetta proprio ai cercatori cantati da Bennato non fermarsi all’apparenza e cercare ancora quest’isola di storia.
Alla fine, l’isola che non c’è esiste davvero: aveva la forma di un teatro.
Se passate per Crema, magari andando dritti fino al mattino, fateci caso.
Simone Bodini
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