La storia del Teatro Rossi di Pisa, bellezza incompresa che stregò gli Asburgo.
Italia: terra di santi, poeti, navigatori… e di tanti, troppi incompresi.
Terra del bello e dei suoi canoni prescritti, terra di storia e d’eleganza in ogni dove, terra di nomi famosi più di altri.
Ma soprattutto, terra degli italiani. Un popolo baciato dai monti e poi dal mare, così imbevuto di bellezza da non riconoscerne più il sentore.
Un popolo cresciuto a pane ed estetica, talmente preso ad esportar bellezza da perdersene pezzi con caparbia maldestrezza.
Perché noi italiani, in questo, siamo maestri: creiamo bellezza per lasciarla incompresa.
Ci vorrebbero mesi per elencare una ad una le bellezze incomprese del nostro Paese, ridotte a far da quinta ai monumenti più notori.
Eppure, dalle calli pisane, ci arriva un esempio capace di parlare per ognuna di esse.
Un luogo straordinario, esimio rappresentante dell’arte italiana quando l’Italia unita era soltanto un’utopia: il Teatro Ernesto Rossi di Pisa.
Sito all’angolo di via Collegio Rizzi, a pochi passi dal lungarno e dal palazzo dell’Università, il Teatro Rossi vanta una storia ultracentenaria.
Considerato lo spazio culturale più antico di tutta Pisa, questo tempio dell’arte sconsacrato ha visto il passaggio di due dominazioni straniere e ha ospitato sul suo palco gli attori più importanti di tre secoli diversi.
Cinquant’anni fa, il suo sipario si è chiuso per l’ultima volta e la preziosa struttura è precipitata nel più crudele degli abbandoni.
Conteso dai privati e bistrattato dalle istituzioni, il vecchio Teatro Rossi non sembra trovare pace.
Otto anni fa, dopo decenni d’incuria e appelli al vuoto, un gruppo di giovani ha occupato i suoi interni e ha avviato un’autogestione sperimentale con tanto di rassegne e spettacoli periodici.
Tale azione, promossa da artisti e precari della ricerca sotto il nome di Teatro Rossi Aperto, ha permesso alla cronaca locale di fare luce sulle condizioni del teatro e ha spinto la Regione Toscana ad elaborare un piano di riqualifica.
Eppure, nonostante l’impegno dei suoi “giustizieri”, il progetto è andato incontro al naufragio.
A seguito del mancato accordo con la Regione, l’associazione giovanile si è sciolta e lo scorso gennaio le porte del Teatro Rossi si sono chiuse nuovamente.
Parrebbe dunque che l’abbandono abbia vinto ancora, ma la comunità artistica pisana non si arrende.
Perché la bellezza del Teatro Rossi ha ancora tanto da dire, e la sua grande storia le fa eco dal passato.
La vita del Teatro Rossi ha inizio nel 1770.
La città di Pisa, così come Firenze e i capoluoghi limitrofi, era amministrata dai duchi d’Asburgo-Lorena. Al contempo, il resto della penisola italiana era lo scacchiere su cui giocavano le giganti Spagna ed Austria.
Nell’allora Granducato di Toscana, il mecenatismo rappresentava un vero obbligo morale per i governanti. Essi, infatti, davano ampio impulso alle manifestazioni artistiche tanto per aumentare il proprio privilegio quanto per soddisfare i gusti personali.
Stando alle cronache, nella seconda metà del Settecento, Pisa era una delle città col più florido panorama artistico di tutto il Granducato. Inoltre, possedeva già uno spazio culturale autonomo.
Si trattava dello Stanzone de’ Banchi, un proto-teatro esistente già dal Cinquecento, posto in pieno centro storico e atto ad ospitare le rappresentazioni dei commedianti.
Lo Stanzone, pur essendo una semplice sala pubblica, vantava pregevoli decorazioni ad affresco ed era stato decretato “unico luogo di spettacolo” per tutta Pisa.
Dai registri catastali, si evince che lo Stanzone de’ Banchi sia stato sottoposto a restauro nel 1679. In quell’anno, si aggiungono alla sala preesistente elementi tipici del teatro all’italiana come tre ordini di palchi e una galleria.
Tuttavia, a prescindere dai rimaneggiamenti per renderlo un teatro vero, lo Stanzone rimaneva uno spazio ridotto ed obsoleto.
Una città d’arte come Pisa meritava un teatro nuovo, più grande e moderno, capace di ospitare spettacoli al pari delle “rivali” Firenze e Siena.
La cittadinanza sembra muoversi già dal 1765. Infatti, una lettera spedita al nobile pisano Giobatta Lanfranchi Lanfreducci informa di una proposta fatta direttamente ai Priori della città, poi declinata dagli stessi.
Le cose cominciano a cambiare attorno al 1770, quando i reggenti locali e le autorità del Granducato approvano l’istanza per costruire il nuovo teatro pisano.
Autore del progetto originale è il capomastro Orazio Cecconi, al quale succederà il lavoro altrettanto similare dell’architetto Zanobi del Rosso.
Con l’ingente finanziamento della nobile famiglia Prini e grazie al contributo personale del Granduca Pietro Leopoldo, il cantiere del futuro Teatro Rossi può finalmente aprire.
Pochi anni più tardi, nel 1776, lo Stanzone de’ Banchi sarà completamente smantellato per fare posto agli uffici della Cancelleria. Ad oggi, non ne rimane alcuna traccia.
L’architetto Zanobi del Rosso assume la direzione dei lavori con la supervisione dell’ingegner Bombicci di Pisa.
La sua idea consisteva nel realizzare una sala a ferro di cavallo tradizionale corredata di palchi su più ordini e, se possibile, di gallerie.
Già allievo del grande Vanvitelli, il più grande interprete del Rococò e del Neoclassicismo, Zanobi del Rosso godeva di grande reputazione e prometteva di riprendere gli stilemi del suo mentore per consegnare al Granduca un’opera senza eguali.
E così accade: nel 1771 il nuovo Teatro di Pisa può dirsi ultimato ed è pronto ad accogliere il grande pubblico.
La cerimonia d’inaugurazione si tiene il 18 maggio dello stesso anno e prevede una serata di gala con ospite d’onore il Granduca di Toscana.
Lo spettacolo d’apertura è Antigono, melodramma del 1744 scritto da Pietro Metastasio, che riscuote il grande plauso degli spettatori.
Sulla scia del successo inaugurale, il nuovo Teatro di Pisa riscuote consensi per tutto il decennio successivo e diventa un punto di riferimento culturale noto in ogni angolo del Granducato.
Nel 1788, il Granduca Pietro Leopoldo di Toscana lo eleva ad unico spazio culturale di Pisa e ne concede la gestione a Matteo e Gaetano Prini.
Essi erano membri dell’omonima famiglia finanziatrice del Teatro nonché amica degli Asburgo-Lorena.
Alla vigilia dell’Ottocento, l’arte teatrale fioriva in tutta la Toscana e per il Teatro di Pisa battezzato “Prini” stava arrivando il periodo d’oro.
L’opera di Zanobi del Rosso non puntava alle dimensioni, quanto a stupire con le sue particolarità.
Infatti, sebbene non arrivasse a 500 posti totali e mantenesse proporzioni piuttosto modeste, il Teatro Prini di Pisa possedeva elementi del tutto unici che lo rendevano ineguagliabile.
Partendo dall’esterno, una facciata scarna in muratura grezza permetteva l’accesso con due ingressi principali, che davano direttamente sulle attuali piazza Carrara e via Collegio Rizzi.
Una volta all’interno, si apriva uno spazioso atrio scandito da possenti elementi murari, decorato con sfarzosi motivi neoclassici spruzzati di Rococò in perfetto stile vanvitelliano.
Dall’atrio si accedeva alla platea attraverso un corridoio d’intermezzo. Tutti i palchi, invece, erano raggiungibili mediante le apposite scalinate che portavano sino in loggione.
La sala, nel suo complesso, contava quattro ordini di palchi formati da 20 palchetti ciascuno, per un totale di 56.
Gli elementi decorativi riguardavano principalmente le balaustre dei palchi e l’imponente volta superiore. Fondevano la tecnica dell’affresco a quella del rilievo e recavano tutti la firma dell’artista pisano Mattia Tarocchi.
Ogni palchetto era corredato di fregi con motivi fitomorfi, i quali facevano da cornice ad oculi corredati di rosone.
Tale eleganza era mantenuta anche all’ultimo ordine, con la differenza delle colonnette in ghisa al posto delle paraste.
Sul palcoscenico, molto profondo e arioso, troneggiava un sipario realizzato dal maestro pisano Giovanni Tempesti, perfettamente visibile dal palco reale posto in linea d’aria.
Quest’ultimo, riservato al solo Granduca e alla sua famiglia, aveva una struttura tradizionale a balconcino ed era tre volte più ampio dei palchetti normali.
Per ragioni tutt’ora ignote, Zanobi del Rosso realizza i camerini non attigui al palcoscenico, bensì esterni al teatro stesso.
Una caratteristica molto rara nel teatro all’italiana, ma senz’altro unica nel suo genere.
Ad ogni modo, niente catturava l’attenzione del pubblico come gli archi a sesto acuto del retropalco.
Perfettamente visibili a sipario aperto, le due imponenti ogive in muratura fungevano da soluzione al problema di asimmetria del palcoscenico.
Infatti, come evidenziato dalla pianta dell’edificio, la zona terminale del Teatro Prini non riprende le linee rette del quadrilatero perimetrale, ma si evolve in una sorta di trapezio scaleno.
L’obliquità del lato Est si doveva ad un edificio preesistente alla costruzione del teatro, che non poteva essere abbattuto poiché ancora attivo ed abitato.
Prevedendo l’irregolarità del palcoscenico, Zanobi del Rosso aveva deciso di aggirare il palazzo confinante costruendoci attorno le mura del retropalco, per poi risolvere il problema con l’illusione ottica data dagli archi a sesto acuto.
Pur con un pilastro più piccolo dell’altro, infatti, le due ogive riportavano lo sguardo dello spettatore al centro esatto del palcoscenico e davano un tocco di unicità al fondale anonimo.
Un occhio attento poteva comunque percepire l’asimmetria del palco, tuttavia, ci sarebbe riuscito soltanto da una posizione laterale.
Alla particolarità degli archi ogivali si aggiungeva quella delle vasche insonorizzanti, realizzate con porzioni di muratura.
Ricavate dalla parete nord del retropalco, le vasche si servivano dell’acqua per assorbire le vibrazioni più potenti, diminuendo l’impatto del suono sulla struttura e sul graticcio ligneo soprastante.
Pur concepite come soluzioni di ripiego, le dotazioni del Teatro Prini di Pisa lo avevano reso ancor più amato dai suoi frequentatori.
Le opere ingegneristiche del Teatro Prini di Pisa vengono sottoposte al primo restauro nel 1798, in occasione del secondo passaggio di proprietà.
Infatti, con l’avvento della dominazione francese della Toscana a seguito della Campagna d’Italia di Napoleone, la struttura passa nelle mani della neonata Accademia dei Costanti.
Quest’ultima opta per un rimaneggiamento complessivo e nel 1804 ne affida l’incarico all’architetto Antonio Niccolini, che ridipinge la volta della platea e il sipario del Tempesti.
Niccolini, qualche anno più tardi, sarebbe diventato famoso per aver ricostruito il Teatro San Carlo di Napoli.
Dopo la sconfitta di Napoleone, in Toscana si ricostituisce il Granducato e l’amministrazione del Teatro di Pisa passa dall’Accademia dei Costanti a quella dei Ravvivati nel 1822.
Due anni più tardi, nel 1824, i Ravvivati ingaggiano l’architetto Alessandro Gherardesca per ammodernare gli interni e il suo lavoro si concentra prettamente sull’atrio d’ingresso.
Gli elementi murari inseriti da Zanobi del Rosso vengono quindi sostituiti da un colonnato con capitelli ionici e il resto delle decorazioni rese conformi all’eleganza neoclassica del periodo.
A seguito delle modifiche di Gherardesca, il Teatro di Pisa ribattezzato “dei Ravvivati” acquisisce un’importanza sempre maggiore.
Le stagioni della Lirica, inaugurate già dal 1814 con L’escavazione del tesoro di Giovanni Pacini, registrano un seguito sempre più folto e toccano numeri da tutto esaurito tra il 1836 e il 1840.
Gli attori più famosi dell’epoca come Gustavo Modena adorano il palcoscenico del Ravvivati e compositori del calibro di Giuseppe Verdi e Gaetano Donizetti vi rappresentano spesso le loro opere, attirando spettatori da ogni parte della penisola.
Addirittura Paolina Leopardi, sorella del sommo poeta Giacomo, frequenterà il teatro a più riprese e ne scriverà al fratello elogiandone l’ottima acustica.
Con l’Unità d’Italia nel 1861, il Teatro dei Ravvivati di Pisa prende il nome di Teatro Regio e continua imperterrito la sua attività, ora e per sempre sotto la bandiera tricolore.
Tuttavia, a partire dal 1867, si assiste ad una brusca inversione di tendenza.
Quell’anno, infatti, viene inaugurato a Pisa il nuovo Teatro Verdi, sorto a pochi passi dal Teatro Regio dopo due anni di lavori.
Coi suoi spazi più moderni ed una capienza massima di 858 posti, il neonato Teatro Verdi surclassa il vecchio Regio in tutto e per tutto, sottraendogli il titolo di spazio culturale di punta per Pisa.
Già nel 1865 si era riscontrato un leggero calo di pubblico, dovuto sia al crescente degrado della struttura sia all’apertura del Politeama Nazionale, oggi scomparso.
Tuttavia, se col Politeama la primazia del Regio non era stata toccata, la nascita del Teatro Verdi rappresentava una sfida pressoché impossibile.
Nella speranza di competere con le nuove strutture, nel 1878 prende il via un nuovo ciclo di restauri, al termine dei quali il Teatro Regio viene intitolato al celebre attore livornese Ernesto Rossi.
L’investimento funziona e il neo-eletto Teatro Rossi di Pisa riguadagna pubblico e consensi, senza però eguagliare i numeri del Verdi.
L’opera di Zanobi del Rosso viene così degradata a palco d’operette e avanspettacolo, pur continuando a funzionare con regolarità.
La prima decade del Novecento rappresenta l’inizio del vero e proprio degrado per il Teatro Rossi di Pisa.
Nel 1912 prende il via l’ennesima serie di restauri, diretta dall’ingegner Pietro Studiati, i cui lavori portano all’abbattimento delle balaustre murarie al quarto ordine di palchi assieme alle pareti divisorie dei palchetti.
Al loro posto viene inserita una pregevole ringhiera in ferro battuto modellata secondo i dettami del Liberty, ad opera del maestro ferraio Lelio Titta.
Così, nel giro di qualche mese il quarto ordine di palchi diventa un’unica galleria e la sala assume il suo aspetto attuale.
Purtroppo, i lavori d’ammodernamento non hanno l’esito sperato e col prosieguo del secolo il Teatro Rossi di Pisa viene dimenticato ogni giorno di più.
Negli anni Trenta la struttura è ormai abbandonata e la sua decadenza è tale da indurre l’amministrazione comunale a demolirla completamente.
Per fortuna, l’ordine d’esecuzione viene fermato in extremis dalla Soprintendenza per l’Arte Medievale e Moderna di Pisa, che nel 1932 dichiara il Teatro Rossi “bene culturale e patrimonio artistico”.
Dieci anni più tardi, nel 1940, la Società del Teatro che gestiva il Rossi dall’Unità d’Italia fallisce e l’edificio viene messo in liquidazione.
Ad acquistarlo è la Cassa Risparmio di Pisa, la quale nel 1942 lo affitta alla federazione locale del Partito Nazionale Fascista.
Nel 1944, in seguito all’emanazione delle leggi antifasciste del maresciallo Badoglio, il Demanio acquisisce il Teatro Rossi e nel 1946 lo affitta al Comune di Pisa.
Luigi Bellini, nello stesso anno, si prende carico della gestione e organizza la ripartenza della sala con spettacoli di prosa e incontri di pugilato.
Bellini interviene nuovamente sull’architettura interna e fa costruire una cabina di proiezione per cinematografo nel palco del Granduca.
La loggia viene così scarnificata dalle operazioni del Genio Civile e i preziosi affreschi della sala antistante cedono il posto al cemento armato.
Nel 1956 la stessa sorte tocca alla volta del Niccolini, demolita e sostituita con un’altra cementizia poiché “priva di rilevanza artistica”.
In questo modo, il Teatro Rossi perde la sua funzione originaria e si riduce a sala cinematografica secondaria, con poche proiezioni all’attivo e spettacoli di prosa sempre più rari.
Nel 1957 un’ispezione comunale non rileva alcun problema di staticità, perciò, l’attigua sede della Cassa Risparmio ne approfitta per varare un pacchetto di lavori d’ampliamento.
Nel 1966 gli scavi hanno inizio ma finiscono per compromettere seriamente le fondamenta del Teatro Rossi, danneggiando grosse porzioni dei muri portanti.
A seguito del rinvenimento di crepe profonde nell’area fianco palco, la struttura è dichiarata inagibile e nello stesso anno Luigi Bellini è costretto a chiudere i battenti del Teatro Rossi.
Negli anni Settanta del Novecento il Teatro Rossi vive la fase più acuta del suo degrado strutturale.
Infatti, fino al 1977, l’edificio tanto amato dai duchi d’Asburgo funge da mero deposito comunale per motorini e biciclette sequestrate.
Nel 1978 cominciano a palesarsi i primi piani di riqualifica, seppur rivolti perlopiù all’ampio retropalco.
La Cassa Risparmio di Pisa voleva sfruttarne gli spazi per realizzare nuovi uffici e la mensa dei dipendenti, costruendo una sovrastruttura di 200 metri quadri che avrebbe ridotto drasticamente lo spazio utile per le scenografie.
La Soprintendenza, tuttavia, rigetta la proposta e si dichiara disponibile ad accettarla soltanto se la Cassa Risparmio avesse pagato l’intero costo dei lavori.
La banca, già condannata nel 1973 dal Tribunale di Firenze a risarcire il Comune di Pisa con 30 milioni di Lire per ricoprire i danni fatti, rifiuta di accollarsi l’onere e annulla il procedimento.
Nel 1981 il Teatro Rossi passa nelle mani della Soprintendenza, la quale interverrà con lavori di consolidamento strutturale fino al 1984.
Dopo la stabilizzazione delle mura portanti e il restauro della copertura, il Comune di Pisa si fa avanti per chiedere una nuova concessione d’utilizzo con validità di 19 anni.
Tuttavia, nel 1986 il Comitato regionale preposto ai beni culturali si oppone e il Teatro Rossi rimane impantanato nel fango della burocrazia.
Bisognerà attendere il 1990 per sbloccare la situazione, col via libera del Ministero dei Beni Culturali a un fondo da 850 milioni di lire essenziale alla rimozione degli elementi lignei fatiscenti e al restauro conservativo di facciata ed archi ogivali.
A principio degli anni Duemila, il MiBAC torna ad occuparsi del Teatro Rossi di Pisa.
Una relazione spedita il 3 aprile del 2000 al dottor Oberdan Forlenza, capo di gabinetto del Ministero, parla di lavori conclusi con successo e del ritorno all’agibilità di platea e palcoscenico.
Così, il Ministero dà il consenso all’esecuzione di pubblico spettacolo ma a capienza ridotta e vieta l’utilizzo di palchi e galleria, ancora inagibili in attesa di restauri futuri.
Per qualche anno, la Scuola Normale di Pisa sfrutta i suoi spazi per ambientarvi le sessioni di lettura dantesca.
Si rinnova inoltre l’impegno attivo di Flavio Bucci e Giorgio Albertazzi, giganti del teatro in prima linea per la riqualifica della struttura.
Tuttavia, le loro speranze e quelle di migliaia di pisani si spengono nel 2004, quando il Demanio pone sotto sequestro il Teatro Rossi a seguito di presunte violazioni della capienza ridotta durante uno spettacolo in collaborazione col Teatro Verdi.
Nel tentativo di scongiurare un secondo stallo burocratico, il Comune di Pisa vara il progetto degli “Uffizi Pisani”, includendo il Teatro Rossi in una serie di opere conservative finanziate dalla Regione Toscana.
Anche stavolta, però, l’idea si concretizza in un nulla di fatto e l’unica occasione di riapertura per il Teatro Rossi si rivela essere la Giornata FAI di Primavera del 2011.
Nel 2012, in risposta all’immobilismo istituzionale, gruppi di studenti e lavoratori dello spettacolo occupano il Teatro Rossi.
Dall’azione nasce una vera e propria associazione autonoma, denominata Teatro Rossi Aperto, che dà il via ad un’autogestione della sala nelle sue parti più agibili organizzando rassegne e rappresentazioni di prosa.
L’occupazione scatena forti polemiche, specialmente dopo la pubblicazione di alcuni scatti ritraenti i ragazzi di TRA che stuccano e puliscono le pareti dell’atrio.
Partiti politici ed esperti del settore protestano, giacché un bene patrimonio artistico come il Teatro Rossi meriterebbe un restauro eseguito da professionisti qualificati e non da giovani senza le giuste competenze.
Inoltre, viene chiesto più volte di sgomberare l’immobile, in quanto proprietà demaniale abusivamente occupata da estranei resisi colpevoli d’effrazione.
Nonostante ciò, il Teatro Rossi non subisce mai alcuno sgombero e l’autogestione prosegue per i successivi 8 anni.
Nel 2020 il round table con la Regione Toscana sembra dare i suoi frutti e per la prima volta, dopo cinquant’anni di spietato abbandono, viene formulato un piano di riqualifica per il Teatro Rossi.
Tuttavia, lo stesso si rivela del tutto incoerente con la proposta di riapertura sostenibile avanzata da TRA e la Regione si rifiuta di stanziare la cifra sufficiente per sostenere il costo dei lavori.
Pertanto, dinanzi al fallimento delle trattative, l’associazione Teatro Rossi Aperto si scioglie e viene sostituita da un’assemblea costituente per continuare a vigilare sui progetti di riqualifica.
A un anno dalla sua nascita, però, l’assemblea subisce il suo primo colpo basso.
Nel gennaio 2021 le porte del Teatro Rossi di Pisa vengono sigillate con nuovi lucchetti in acciaio rinforzato.
Le serrature blindate impediscono l’accesso all’interno della struttura e la chiudono a tempo indeterminato fino a nuovo ordine.
Non si sa chi abbia ordinato l’intervento, né tantomeno per quali ragioni.
In ogni caso, l’assemblea s’è vista tagliata fuori dal processo decisionale e promette di dare battaglia al fine di riaprire nuovamente il Teatro Rossi.
Al giorno d’oggi, del vecchio Teatro Rossi di Pisa non rimane altro che una scatola vuota.
Malte, stucchi ed affreschi sono ormai spariti da palchi e platea, mentre l’eleganza neoclassica dell’atrio del Gherardesca è l’unico elemento risparmiato dagli abusi.
Gli archi a sesto acuto del retropalco continuano a campeggiare negli interni silenziosi, conferendo loro un’aura sacrale al pari di una chiesa.
È una bellezza incompresa quella del Teatro Rossi di Pisa, rimasta intatta per più di trecento anni se pur bistrattata e trasformata in autorimessa.
Al fine di ricordare i suoi fasti e fare luce sul teatro che stregò gli Asburgo, i ragazzi di Teatro Rossi Aperto hanno creato una petizione online, accessibile tramite il sito ufficiale di TRA e firmabile da chiunque volesse dare il suo contributo.
Le firme raccolte sono già tante, si spera soltanto in un ultimo e definitivo cambio di rotta, magari in sicurezza e senza occupazioni abusive.
Nel frattempo, il Teatro Rossi di Pisa non fa che aspettare, serrato in quell’angolo d’Italia sulle rive dell’Arno.
Un angolo reso grande dall’arte teatrale, un patrimonio inestimabile che oggi, proprio in quell’angolo, sembra incedere a fatica.
Simone Bodini
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