ll film che ottenne (forse) l’OK del Papa
Era il 1970. Andrew Lloyd Webber, futuro compositore del classico “The Phantom of the Opera”, aveva già scritto in collaborazione con Tim Rice ben due musical. Uno di questi era “Joseph and the Technicolor Dreamcoat”, una rilettura in chiave musicale di una vicenda della Genesi. Quell’anno i due compositori fecero uscire un album musicale di stile rock con, alla base, una storia ben più conosciuta tratta dal Nuovo testamento. Webber aveva solo 22 anni.
L’album in questione era “Jesus Christ Superstar”, una “rock opera” con al centro gli ultimi sette giorni della vita di Gesù Cristo, dal suo arrivo a Gerusalemme alla crocifissione. Un progetto decisamente ambizioso che subito catturò l’attenzione del pubblico, entrando in diverse classifiche nazionali e internazionali.
La parte del Messia era interpretata, nell’album, da Ian Gillan, divenuto da poco il lead singer del gruppo “Deep Purple”. L’interprete di Giuda Iscariota, Murray Head, aveva partecipato alla produzione del West End di “Hair”. Nella parte della protagonista femminile, Maria Maddalena, c’era una giovane cantante che fino ad allora si era esibita solo in bar e club: Yvonne Elliman. Ultimo membro del cast principale Barry Dennen nel ruolo di Ponzio Pilato.
Al lancio dell’album seguirono poi una serie di produzioni di successo. La prima fu quella di Broadway, nel 1971. Gli unici membri del cast a riprendere i propri ruoli furono Dennen e Elliman. Il musical ottenne un certo successo di pubblico, tanto da restare in scena fino al 1980.
Questo nonostante le recensioni miste rivolte a questa prima produzione e le critiche sollevate da gruppi religiosi (soprattutto di stampo cristiano). Critiche che nascevano da alcuni elementi del musical considerati controversi. In primis la natura più simpatetica data al personaggio di Giuda, dipinto come ormai disilluso a causa della fama del suo vecchio amico e il cui sacrificio è predestinato e necessario. Gesù, al contempo, risultava una figura molto più incerta e piena di dubbi riguardo al suo destino. Maddalena, nella famosa ballata “I don’t know how to love him”, dichiara apertamente il proprio amore per il suo maestro. Infine, l’opera si chiudeva con la crocifissione del protagonista, senza fare alcun riferimento alla resurrezione. Insomma, l’opera non spiccava per fedeltà ai Vangeli canonici.
Nel 1972 “Jesus Christ Superstar” ricevette 5 nomination ai Tony Awards, senza vincere alcun premio ma lanciando l’astro di Webber e Rice. Cavalcando questo successo i due decisero successivamente di portare in scena una versione ampliata di “Joseph and the Technicolor Boat”, e negli anni successivi collaborarono insieme anche al musical “Evita”.
Nel 1973, a tre anni di distanza dall’uscita dell’album, e a due anni dalla prima a Broadway, uscì il film “Jesus Christ Superstar”.
Alla regia del film Norman Jewison, regista di origine canadese. Due anni prima si era occupato di un altro adattamento musical-film di successo, “Il violinista sul tetto”. Il suggerimento di adattare il rock album in un film gli venne da Barry Dennen, che ne “Il violinista sul tetto” interpretava una parte.
Molti degli attori provenivano dalla produzione di Broadway. Yvonne Elliman, Dennen e Bob Bingham tornarono nei ruoli di Maddalena, Pilato e Caifa il sommo sacerdote. Giuda e Gesù furono interpretati da Carl Anderson e Ted Neeley. Entrambi avevano fatto da sostituti nei due ruoli a teatro. Josh Mostel, figlio del famoso Zero Mostel, partecipò nella parte di Re Erode.
Le riprese si svolsero in Israele e in altre location del Medio Oriente. Jewison decise di rendere apparente sin dall’inizio la natura irreale del film: la prima scena vede arrivare nel deserto un gruppo di hippies sulle note della overture. Saranno poi questi a recitare il musical, in una serie di ambienti che suggeriscono soltanto le strutture in cui l’opera dovrebbe svolgersi. Oltre a ciò in alcune scene il montaggio è reso più che mai visibile, per permettere allo spettatore di non scordarsi mai di star visionando un film: l’immagine si interrompe, scene della scalata del monte Golgata si alternano a un numero di danza…
Il musical in sé presentava già dei forti riferimenti all’attualità, trattando la figura di Gesù come una moderna superstar e i suoi seguaci come degli entusiasti fan. Nel corso degli anni diverse produzioni hanno reso ancora più forte il riferimento alla modernità, spesso ambientando esplicitamente l’opera nella contemporaneità. è il caso dell’adattamento del 2000. Altre versioni hanno invece optato per una esasperazione degli elementi spettacolari e della natura di star del messia. è il caso del concerto del 2018, con protagonista John Legend nel ruolo di Gesù, Sara Bareilles come mADDALENA e Alice Cooper (Re erode).
Il film decide di assumere una via di mezzo. Alcune scene del film riprendono elementi contemporanei al periodo delle riprese: aerei e carri armati che rappresentano il senso di colpa di Giuda, venditori di souvenir nel tempio di Gerusalemme, giornalisti che cercano di intervistare Gesù appena arrestato… Si crea un miscuglio visivo sconcertante e al contempo molto interessante, una contaminazione di stili particolarmente evidente nell’uso dei costumi.
I costumi, soprattutto quelli dei discepoli e degli adoratori di Gesù, sono aderenti alla moda degli anni ’70 o ne riprendono degli elementi. L’unico ad indossare un abito tipicamente ricollegabile all’iconografia cristiana è lo stesso Gesù, che spicca subito in mezzo alla folla con la sua tunica bianca. Forse una stoccata alla natura “antiquaria” dei metodi del Messia, come Giuda suggerisce nella canzone “Superstar”? Un riferimento all’universale modernità del suo messaggio? Tutto è possibile.
Rispetto al musical originale il film presenta delle alterazioni. Alcune battute furono modificate nella speranza di evitare lo scandalo negli ambienti religiosi. Purtroppo la tattica non riuscì e la pellicola si attirò contro critiche di diversi gruppi, non solo cristiani ma anche ebrei (a causa della scena in cui la folla chiede a gran voce la crocifissione di Gesù).
Nonostante queste controversie pare che l’opera fu visionata da Papa Paolo VI, che, a detta di Jewison, la apprezzò molto. Non ci sono mai state conferme da parte dello staff papale, ma sia il regista che Neeley hanno riportato in separate occasioni lo stesso fatto.
Rispetto all’album nel film fu aggiunta una canzone, “Then we are decided”, con protagonisti Caifa e Anna. La canzone “Could we start again?” era stata incorporata alla produzione di Broadway e fu inserita anche nel film. Inoltre al numero “Trial before Pilate” sono stati aggiunti altri versi.
Oltre a ciò, nonostante nel film si mantenga il finale del musical, con la crocifissione di Gesù e l’allontanamento degli attori, un piccolo dettaglio sembra lasciare una speranza. Infatti nell’ultima inquadratura si può vedere un pastore passare davanti alla croce. Jewison affermò che questo momento fu puramente casuale. Una casualità, potremmo dire… Divina?
Gran parte degli attori, ad eccezione di Dennen e Mostel, erano alla prima esperienza davanti alle telecamere. Le interpretazioni dei protagonisti presentano una intensità e una frontalità che si adattano forse più all’esperienza teatrale, ma che comunque portano ad un coinvolgimento enorme che viene trasmesso anche al pubblico.
Anderson e Neeley, nonostante le poche scene in cui appaiono insieme, rendono subito apparente il forte legame tra i due protagonisti. Il primo splende in ogni scena in cui appare con la sua voce ricca, restituendo il tormento interiore di un Giuda decisamente più sfaccettato di quello presentato nei Vangeli. Ted Neeley, con la sua presenza radiante calma e spiritualità, si adatta perfettamente alla classica iconografia cristologica, spiazzando però lo spettatore presentandosi più che mai umano. Ultima dei tre protagonisti, Elliman crea una Maddalena affettuosa e amorosa, divisa tra la devozione per il suo maestro e l’amore per l’uomo che è in lui.
Ai tempi dell’uscita il film ricevette critiche miste. Tuttavia a distanza di anni sembra che parte della fama e dell’amore di cui oggi lo spettacolo teatrale gode sia anche e soprattutto derivante da questo film.
Nel corso degli anni “Jesus Christ Superstar” ha goduto di una serie di produzioni, sia a Londra e a Broadway sia in altri paesi. Uno dei fattori che ha reso certamente queste messe in scena molto frequentate è stato l’utilizzo ripetuto di attori facenti parte della versione cinematografica.
Questo il caso di una produzione messa in scena nel 1992, con protagonisti Carl Anderson e Ted Neeley. Lo spettacolo sarebbe dovuto restare in cartellone per pochi mesi. Vi rimase in realtà per ben cinque anni. Anderson partecipò ad un tour di “Jesus Christ Superstar” con Sebastian Bach nella parte di Gesù un anno prima della sua morte, nel 2004.
In Italia soprattutto questo spettacolo ha goduto di una lunga storia di rappresentazioni e di amore senza precedenti. Nel 2006 la Compagnia della Rancia l’ha messo in scena con le canzoni tradotte in italiano. Dal 1994 la Peeparrow, gestita da Massimo Romeo Piparo, lo portò in scena in lingua originale. Ted Neeley ha partecipato alle ultime edizioni nel ruolo che ricopre dagli anni 70. In alcuni spettacoli all’attore si sono uniti Yvonne Elliman e Barry Dennen, prima della morte di quest’ultimo nel 2017.
Ted Neeley, oggi settantasettenne, è tuttora uno dei fan più attivi dello spettacolo. Oltre a partecipare ancora a moltissimi tour in Italia e all’estero, mantiene attiva l’attenzione sui social, continua a vendere merchandise e ha addirittura creato un documentario dedicato al making of del film e alla reunion del 2015.
E a distanza di cinquant’anni dall’uscita, nonostante tutte le critiche ricevute dalle associazioni religiose, “Jesus Christ Superstar” è uno dei film che regolarmente viene trasmesso in chiaro dalla TV italiana in occasione della Pasqua.
Dunque, come mai tutto questo amore per un film che alla sua uscita fu accolto abbastanza tiepidamente dalla critica?
Beh, parte della risposta potrebbe essere semplicemente “nostalgia”. Le persone che da giovani hanno visto e apprezzato questo film cinquant’anni dopo potrebbero voler tornare ad esplorare un’opera che incapsula perfettamente gli anni ’70. E il fatto che in Italia, a distanza di venti anni, si continui a tornare al cast originale di “Notre Dame De Paris” ci ha evidentemente insegnato una lezione: tutti quanti vogliono avere anche la minima possibilità di rivivere dal vivo ciò che hanno già visto su video.
Non credo che sia giusto, comunque, ridurre la sensazione che questo film ancora riesce a provocare a un semplice fattore nostalgico, per quanto certamente influisca non poco. In primis penso che lo stile astratto di “Jesus Christ Superstar”, quel miscuglio bizzarro tra moderno e passato, tra vero e falso, tra musical giocoso e riflessione profonda, tra sacro e profano, sia riuscito a catturare o, al contrario, repellere gli spettatori. Difficile trovarsi in una via di mezzo, nel guardare un film così stilizzato: o lo si ama o lo si odia.
Trovo poi che forse uno dei motivi per cui dopo tanti anni si è riuscito a guardare a questa pellicola con maggiore indulgenza e, in un certo senso, affetto, è anche la rappresentazione dei personaggi. Se ai tempi della sua prima proiezione questo film causò scandalo, oggi la concezione dei Vangeli e della Chiesa è profondamente mutata. Forse per alcuni credenti non è più scandaloso come lo era una volta vedere un Gesù così prono all’errore, una Maddalena innamorata o un Giuda quasi “giustificato” nelle sue azioni. Paradossalmente poi quest’opera sembra essersi guadagnata l’affetto di molte persone non religiose, che ne apprezzano la non troppo sottile critica alla mercificazione del messaggio religioso e l’umanità che trasuda dai personaggi.
Non intendo certo dire che questo film fosse troppo avanti rispetto ai suoi tempi, e non credo che alcuni recensori, al tempo, sbagliarono nello stroncarlo. Forse la definizione che ritengo più adatta è che questo film è invecchiato come un buon vino: dignitosamente, e guadagnandosi una schiera sempre più ampia di accoliti col passare degli anni, disposti a passare sopra alcuni scivoloni per godersi un’opera che, prima che di divinità, sembra voler parlare di umanità. E che, in questo modo, parla a tutti noi.
Silvia Strambi